Wednesday, November 21, 2012

I colleghi, la solutidune, le grandi città

Milioni e milioni di persone, un'immenso formicaio, intorno a te.
Sono una massa eterogena.
Sono singoli passanti nel parco, sono un flusso nella metropolitana.
Sono ordinati o caotici, silenziosi o rumorosi.
Molti leggono, altri hanno le cuffie, tutti hanno trovato il loro modo di affrontare la profonda solitudine dell'eterogeneità.
L'anormale diventa normale, la solitudine diventa abitudine, ciascuno sopprime il proprio bisogno sociale dietro ad una scusa che, lentamente, diventa la realtà. Alla fine si è convinti che è quello che si vuole, si è felici di quello che si fa, lentamente l'idea si insinua, pensieri del tipo "in metro ho il tempo di leggere" o "non potrei mai stare senza la musica" diventano l'unica realtà, la comunicazione è un'interruzione di ciò che ormai ci siamo prefissi.
All'inizio non era così, me lo ricordo, ricordo di aver scambiato quattro chiacchere con qualcuno, un ricordo lontano perchè ormai anche io non lo guardo più il qualcuno, ormai sono il nessuno, da scansare con la coda dell'occhio mentre leggi.
In una piccola città non hai il tempo di leggere, le distanze sono brevi, l'interazione necessaria. Anche qui, a volte, accade ed è così che in ascensore scambi quattro chiacchere, nei 24 secondi tra il piano terra e il secondo piano ho parlato più a lungo e con più sconosciuto che in un'ora e mezzo (5400 secondi) passati nella metropolitana.
Possiamo imputare questa differenza tra l'ascensore e la metro alla necessità di superare l'imbarazzo di trovarsi in 2 in uno spazio di 2 metri, cosa tutt'altro che naturale per gli esseri umani ma portata dalla tecnologia, o al fatto che, essendo in 2, non ci sentiamo giudicati.
Ecco, giudicati, sembra assurdo ma c'è sempre l'idea di essere giudicati, perfino in un posto dove la probabilità di reincontrare la stessa persona è praticamente nulla la paura del giudizio rimane, è in noi prima che nell'altro, deve far parte delle strategie di adattamento che abbiamo imparato, a tutti piace essere amati o quantomeno accetatti.

Così, tutto questo, si riporta nel lavoro, almeno nel mio lavoro. Davanti ad uno schermo, poi ognuno, singolarmente va a comprare il pranzo, torna davanti allo schermo, legge un libro (a schermo), gironzola su facebook. Sono tante piccole entità isolate che formano una massa silenziosa, ognuno racchiuso nella sua realtà.
Parlando con persone in altri uffici dove succede la stessa cosa scopri che anche per loro è assurdo, anche loro preferirebbero fare 2 chiacchere con qualcuno, anche loro non capiscono questa cultura, ma anche loro, come noi, sono seduti al computer a mangiare da soli. E allora ti chiedi come mai tutte le persone altre con cui parli, quelle lontane, quelle da sole al computer a parlare con te, vecchi colleghi di lavoro con cui, quando lavoravi, non parlavi mai, come mai loro vorrebbero fare 2 chiacchere e parlare con qualcuno ma non trovano nessuno.

Allora cerchi di superare questa barriera, scrivi in chat al tuo collega (la comunicazione verbale, nell'ora di pranzo, è infrequente, soprattutto su  un argomento così delicato) e gli chiedi se lui, magari, volesse andare a pranzo e sedersi al parco a fare 2 chiacchere.

Dice che inghilterra i colleghi sono colleghi, quello nuovo lo porti a bere una volta e finisce lì, e poi si toglie dall'imbarazzo con una battuta: "la mia ragazza sarebbe gelosa".

Lentamente, la solutidine delle masse, ti entra dentro...

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